Quando la difesa dall’accusa di reato di violenza sessuale diventa una chiamata di correo. La sentenza della Cassazione.

Nonostante siano passati circa trenta anni dalla legge n.66 del 1996 “Norme contro la violenza sessuale”; nonostante nel frattempo ci si sia occupati anche sul piano sociale – oltre che giuridico – di integrare la normativa “capofila”, appena richiamata, con altri istituti a favore delle vittime di violenza. Nonostante l’evoluzione normativa e sociale solcata – di cui la legge de qua ne é stata pioniera, rivoluzionando il codice penale nella sezione dei delitti contro la persona, lasciando al passato i “retrogradi concetti” della donna, ‘disciplinati’ nel codice del 1930 – nonostante tutto questo e altro che il tempo ha lasciato indietro tra le pagine di ‘una storia buia’ in cui i diritti si distribuivano in base all’”appartenenza di genere e ‘classe’”: il tempo sembra non sia passato davvero.

La storia passata ritorna ancora. Il tempo sembra non abbia fatto il suo corso, la sua “vera” evoluzione in merito, nel sentire le dichiarazioni legate – ogni volta – alla violenza che ancora si consuma nei confronti delle donne, è allarmante. E’ allarmante la violenza. E’ preoccupante il commento. E’ preoccupante la violenza dei commenti. Se i casi di cronaca ci consegnano ripetutamente, ancora, in un paese europeo, di un duemila che si avvia alla metà, casi di violenza sessuale, anche di gruppo, qualcosa è tornato indietro, “qualcosa di culturale” non si è adeguato ai tempi, e nemmeno alla legge.

La complessità del discorso necessita ovviamente di tanti approcci, da parte anche di altre discipline, oltre quella giuridica, che non possono essere sintetizzati né minimizzati in questo commento.

La società è cambiata, ma non con ‘evoluzione naturale’, forse è cambiata in modo “forzato”, sia numericamente che socialmente, senza assorbire del tutto la sua evoluzione se non si è adeguata al progresso sociale stesso, che comunque deve esigersi. Il rispetto. Il rispetto in generale, per tutti, semplicemente.

Cosa non ha funzionato allora? La legge c’è.

La legge punisce “certe condotte” e preventivamente appunto – questa è la funzione di cui si pregia il diritto penale – sanziona quelle contrarie alla stessa legge.

Ma la tutela effettiva, prima della legge in sé, la effettua l’approccio socio-culturale alla legge stessa. La apporta il riconoscere la legge. Il rispettare la legge. Conformandosi alla legge, considerandola giusta. Ritenendola giusta. E’ superfluo anche un excursus sul progresso sociale, sull’avanzamento tecnologico e l’influenza dello stesso sull’evoluzione della nostra società; ma è anche deleterio e avvilente dover affrontare di nuovo l’anacronistico – ma non troppo, quindi, si deve aggiungere, se ancora oggi verso la metà del XXI secolo – resistono e si “recuperano” “vecchi e abusati stereotipi” così considerati tali già nel passato.

Se ancora oggi – in aggiunta – tali stereotipi – vengono dissimulati da un “finto perbenismo”, da un “finto progresso” sociale che riallaccia con il passato invece e riporta a galla il concetto del raccapricciante “consenso della donna”: “vis grata puellae”.

Le frasi dei commenti che infestano le cronache nei casi di stupro, lasciano un senso di smarrimento che disarma. Che disorienta.

La vittima, la parte lesa non è mai veramente tale.

La vittima diventa l’istigatrice, la cooperatrice, la complice, la coimputata, l’imputata. Diventa vittima a metà.

La vittima, il suo “grado” sociale, economico, culturale, anagrafico, etnico, lavorativo, ecc., diventa e tutti insieme diventano una prova per l’avversario, l’accusato. La vittima in base alla propria “condotta di vita” al “proprio stile di vita” sarà esposta più o meno a ‘giustificare’ l’accusa. A giustificarsi. A motivare. A spiegare.

Gli istituti a favore delle vittime di tali delitti sono molteplici: dalla riservatezza delle generalità e delle immagine della persona offesa introdotta con la prima legge riformatrice sopra richiamata, all’urgenza delle indagine introdotta nel codice di rito dal c.d. Codice rosso (legge 69/2019), al supporto, all’assistenza ‘economica processuale’. Al riconoscimento del ‘concetto’ racchiuso nella c.d. “vittimizzazione secondaria”.

Ma nonostante i vari sforzi necessari per ‘equiparare’ reati del genere agli altri (anche se non lo sono), e quindi ‘trattarli’ senza pregiudizi, preconcetti, riserve nei confronti della parte lesa; nessuno chiederebbe mai al proprietario della casa, dopo una rapina, se avesse incoraggiato in qualche modo il ladro a rubare, lasciando le chiavi nella parte esterna della toppa della porta.

Quello della violenza sessuale è un reato, la cui difesa viene impostata come una chiamata di correo.

La difesa di alcuni indagati più che una difesa diventa una chiamata di correo. E sulla chiamata in correità si vorrebbe ancora impostare il processo, come in passato.

E l’accusa di conseguenza viene – deve essere impostata – come una difesa.

I casi di cronaca sono spaventosi.

Con atteggiamenti del genere si rischia di ritornare davvero al passato, buttare decenni di sforzi, e ripiombare nel “buio dei corridoi” del passato dove era terrificante – quanto il fenomeno in sé – il numero ‘esorbitante’ delle c.d. cifre nere causate dalla mancanza di fiducia nella legge, nella giustizia; dalla mancanza di fiducia nella società civile, e quindi nello Stato.

Ci si difende non dall’accusa, dal reato contestato, ma dalla persona, dalla vittima (o presunta tale).

Come se il ladro fosse “più ladro” in base al valore dei redditi dichiarati nel modello Isee dal derubato.

La difesa diventa un’accusa, un chiamare in causa l’altro, il soggetto passivo. Il querelante. La donna. L’accusa(trice) diventa un concorrente del reato, un “favoreggiatore”; e poi “inevitabilmente” un calunniatore, già però nella fase del procedimento.

Ci si augura che la risonanza mediatica che avviene nei “grigi corridoi” dei social (del secolo della tecnologia) e dei media in generale non influenzi “le luminose stanze della giustizia”.

Il diritto penale non può estendere la sua funzione ulteriormente – tutela già la libera autodeterminazione della sfera sessuale della persona – per supplire le carenze, le lacune, i vuoti di altre istituzioni deputale alla ‘formazione’ degli individui; formazione che deve portare con sé tutti quei principi e valori di cui si fa portatrice una sociale civile nel suo pieno significato, e non solo formale.

Tutti quei principi e valori sociali costituzionalmente orientati.

Formazione che dovrebbe, che deve pertanto affiancare, integrare, supplire e anche ‘anticipare’ in casi del genere la stessa funzione general e special -preventiva della sanzione penale , contrastando le condotte illecite, impedendo determinati crimini.

Tali “considerazioni” non sono rivolte all’aspetto ‘tecnico di rito’, e nemmeno alla norma sostanziale, seppur migliorabili entrambi. E’ l’approccio intero al fenomeno che va osservato, considerato, inquadrato con lente diversa, con una cognizione diversa, con una coscienza diversa, per evitare appunto che si sgretoli tutto quanto fatto, per lasciare il passato al passato. Per un progresso diverso, concreto e non solo formale. Perché ci sono reati che non sono come tutti gli altri, e questo è uno di quello.

E non va spiegato perché la violenza sessuale non è un reato come gli altri, perché se si deve spiegare, allora non serve nemmeno la spiegazione.

E’ come gli altri reati – e anche in ‘questo senso’ per lo stesso ‘motivo di ovvietà’ non va spiegato – sotto l’”aspetto del garantismo”, che non deve mai affievolirsi nemmeno nei casi in cui il reato è “diverso”, come quello in oggetto, affinché prevalga sempre il diritto di difesa, ma una difesa degna di tale nome – e non degradata e ridotta in un oltraggio alla vittima – che è alla base di una società che contempla e applica in concreto il principio di legalità sotto tutti i suoi aspetti.

Ma è la giurisprudenza del Palazzaccio che frena queste battute d’arresto, culturali, sociali e (giudiziarie???), e ci riporta nei “tempi moderni”.

La pronuncia degli Ermellini del maggio 2023, su ricorso del Procuratore generale di Corte d’Appello, difensore di fiducia e parte civile ‘ribalta’, annulla e rinvia ad un nuovo esame quella della Corte d’Appello in merito ad un caso di violenza sessuale, conclusosi con assoluzione per ‘confusione sul significato di consenso’.

Con sentenza n. 19599 del 10/05/2023 la Corte di Cassazione penale ‘riassume’, ripercorrendo il ‘solco’ già tracciato dalla giurisprudenza di legittimità in applicazione della legge 66/96 (Norme contro la violenza sessuale), e in particolare in merito al concetto di “consenso” e quindi “mancanza di consenso” e “manifestazione di dissenso” della persona offesa.

Una concisa ma eloquente delineazione dei rispettivi significati scorporati dalle concezioni di epoche passate.

I Capitolini chiariscono quindi – ricordando anche che la ‘prevalente linea’ giurisprudenziale in merito è costante, stabile – e rimarcano che “integra l’elemento oggettivo del reato di violenza sessuale non soltanto la condotta invasiva della sfera della libertà ed integrità sessuale altrui realizzata in presenza di una manifestazione di dissenso della vittima, ma anche quella posta in essere in assenza del consenso, non espresso neppure in forma tacita, della persona offesa, come nel caso in cui la stessa non abbia consapevolezza della materialità degli atti compiuti sulla sua persona”.

E ancora, sottolinea la Corte rilevando e ricordando appunto che “non è ravvisabile in alcuna fra le disposizioni legislative introdotte a seguito dell’entrata in vigore della legge 66/96, […] un qualche indice normativo che possa imporre, a carico del soggetto passivo del reato […] un onere, neppure implicito, di espressione del dissenso alla intromissione di soggetti terzi nella sua sfera di intimità sessuale, dovendosi al contrario ritenere […]che tale dissenso sia da presumersi e che pertanto sia necessaria, ai fini dell’esclusione dell’ offensività della condotta, una manifestazione di consenso del soggetto passivo che quand’anche non espresso, presenti segni chiari ed univoci che consentano di ritenerlo esplicito in forma tacita”.

Con Sentenza del maggio del 2023 quindi la Corte di Cassazione penale rifiuta i “vecchi e abusati stereotipi” , del “consenso implicito” soluzione ermeneutica che sembrerebbe ravvisare la non punibilità degli atti sessuali compiuti in mancanza di un esplicito dissenso della vittima, finendo per porre in capo ad essa l’onere di resistere all’atto sessuale che le viene imposto, quasi gravasse sulla vittima una “presunzione di consenso” agli atti sessuali da dover di volta in volta smentire, “ciò che si risolverebbe in una supina accettazione di stereotipi culturali ampiamente superati”.

La Suprema Corte non ci sta a rimpatriare concezioni anacronistiche, “stereotipi culturali” che dovrebbero essere invece lasciati solo al ‘ricordo storico’ per rammentarci i segni dell’evoluzione e del progresso storico-sociale acquisito,ed orientarci come una bussola nella direzione del miglioramento, e dell’avanzamento in ogni prospettiva’ del valore etico, culturale, sociale.

Fonte: https://www.studiocataldi.it/articoli/46088-la-difesa-dall-accusa-di-stupro-diventa-una-chiamata-in-correita.asp
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