Per la Consulta, gli artt. 64 c.p.p. e 495 c.p. sono incostituzionali se le false dichiarazioni dell’indagato/imputato non sono precedute dall’avviso della facoltà di non rispondere.
Artt. 64 c.p.p. e 495 c.p.
Gli artt. 64 c.p.p. e 495 c.p. sono incostituzionali se le false dichiarazioni dell’indagato/imputato non sono precedute dall’avviso della facoltà di non rispondere. Così la Corte Costituzionale con sentenza n. 111 del 5 giugno 2023 (sotto allegata).
Nella vicenda, il Tribunale di Firenze, Sezione I Penale, è chiamato a pronunciarsi su un caso di falso. In particolare, l’imputato è accusato del reato ex art. 374 bis c.p. per aver dichiarato a pubblici ufficiali, appartenenti alle Questura di Pisa – in sede di identificazione, elezione di domicilio e nomina del difensore -, di non aver riportato condanne, quando ne aveva già subite due passate in giudicato.
Il giudicante, previa riqualificazione del fatto nel più grave reato di cui all’art. 495 c.p., a seguito di un’attenta analisi, ritiene di sollevare una questione di legittimità costituzionale del medesimo articolo, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. , nella misura in cui non esclude la punibilità per i casi di false dichiarazioni – in relazione ai propri precedenti penali ed in generale alle circostanze ex art.21 disp.att.c.p.p. – rese da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di non rispondere; solleva altresì q.l.c. dell’art.63 comma 3 c.p.p., nella parte in cui non prevede che gli avvisi previsti debbano essere formulati prima di qualsiasi audizione della persona indagata/imputata nell’ambito del procedimento penale.
La questione di legittimità costituzionale
Il giudice rimettente fonda le sue questioni sulla base delle seguenti osservazioni.
L’art. 64 comma 3 c.p.p. espone l’elenco degli avvisi da fornire alla persona prima dell’interrogatorio, tra cui quello della facoltà di non rispondere alle domande, fatte salve le disposizioni dell’art.66 comma 1 c.p.p.. A sua volta, l’art. 66 c.p.p. è richiamato dal dettame dell’art. 21 disp. att. c.p.p., secondo cui “quando si procede a norma dell’articolo 66 del codice , il giudice o il pubblico ministero invita l’imputato o la persona sottoposta alle indagini a dichiarare se ha un soprannome o uno pseudonimo, se ha beni patrimoniali e quali sono le sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale. Lo invita inoltre a dichiarare se è sottoposto ad altri processi penali, se ha riportato condanne nello Stato o all’estero e, quando ne è il caso, se esercita o ha esercitato uffici o servizi pubblici o servizi di pubblica necessità e se ricopre o ha ricoperto cariche pubbliche”.
Muovendo da tali premesse, il giudice a quo richiama giurisprudenza di legittimità (v. ad es. Cass. Pen., n. 2497/2022; n. 31463/2020; n. 43337/2016) che chiarisce come l’indagato/imputato abbia l’obbligo di rispondere solo alle domande inerenti alla propria identificazione, non anche a quelle relative ai propri precedenti penali, il cui rifiuto non può comportare alcuna responsabilità. Solo laddove decidesse di rispondere e dichiarasse il falso, allora incorrerebbe nella violazione di cui all’art. 495 c.p.
Il diritto al silenzio si spiegherebbe con il rischio del pregiudizio (ai fini cautelari o nel merito) che deriverebbe dalle risposte alle domande. Diritto al silenzio che rientra nel più ampio diritto di difesa, tutelato dalla Carta fondamentale all’art. 24.
Visto tale orientamento nomofilattico, il rimettente dubita della legittimità costituzionale delle norme in parola; con una più adeguata attenzione al diritto al silenzio, si andrebbe a coprire non solo le circostanze attinenti ai fatti di cui la persona è accusata, ma anche a tutte quelle di carattere personale che non riguardino le generalità in senso stretto (nome, cognome, luogo e data di nascita).
La disamina della Consulta
La Corte Costituzionale ritiene meritevoli di pregio le doglianze del Tribunale rimettente.
La Consulta spiega come il diritto al silenzio sia corollario del diritto di difesa, sancito dall’art.24 Cost. e riconosciuto anche dall’art.14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici. Richiama diverse pronunce, a partire dalla quella risalente al 1984 n.236, che asseriscono che nel diritto di difesa vi è senza dubbio il rifiuto a rispondere a qualsiasi domanda, tranne che per quelle attinenti all’identificazione personale.
Ricorda, poi, la sentenza n. 108/1976, in occasione della quale, per analoghe questioni (all’epoca si faceva riferimento all’art.25 del regio decreto n.602/1931), lo stesso Consesso aveva avuto modo di osservare che “se l’imputato, alla domanda rivoltagli dall’inquirente sui suoi precedenti risponde in modo contrario al vero, egli incorre nelle sanzioni previste dall’art.495 c.p. […] non è esatto che, a tale domanda, egli sia tenuto a rispondere, essendo certo che può rifiutarsi di fornire le notizie, che in proposito gli vengono richieste, senza incorrere in alcuna responsabilità penale“. Se ne deduceva, pertanto, che le uniche domande alle quali era obbligato a rispondere fossero quelle sulle proprie generalità, dovendosi intedere in tal senso: nome, cognome, data e luogo di nascita.
Con la nascita del nuovo codice di procedura penale, la giurisprudenza di legittimità ha mantenuto il suddetto orientamento anche in relazione alla disposizione prevista dall’art.21 disp.att.c.p.p., non riconoscendo, tuttavia, che l’attinenza con il diritto di difesa delle domande ivi previste. Ne è conseguito che se, da un lato, non v’è obbligo per l’imputato a rispondere, dall’altro, non v’è obbligo per gli inquirenti di avvisare l’interessato della facoltà di astenersi.
Il Giudice delle leggi non approva in pieno il predetto ragionamento e ritiene che non vi sia adeguata tutela del diritto di difesa, il quale si traduce non solo nel “non essere costretto a confessarsi colpevole”, ma anche a “non deporre contro se stesso“.
“Tale diritto è necessariamente in gioco allorché l’autorità che procede in relazione alla commisione di un reato ponga alla persona sospettata o imputata domande su circostanze che, pur non attenendo direttamente al fatto di reato, posso essere successivamente utilizzate contro di lei […] e siano comunque suscettibili di avere un impatto sulla condanna o sulla sanzione“
Tra le suddette circostanze rientrano certamente quelle indicate dall’art. 21 disp.att.c.p.p. e che non riguardano le mere generalità. In particolare, per quel che concerne i precedenti penali, si evidenzia che essi talvolta integrano elementi costitutivi di reato (art. 707 c.p.) oppure rilevano ai fini della contestazione della recidiva ovvero essere utilizzati per valutare la pericolosità sociale del reo e per tutti i fini per i quali i quali è richiesta la loro valutazione, a titolo esemplificativo: la richiesta di applicazione di misure cautelari; la sospensione del procedimento con messa alla prova; la concessione della sospensione condizionale della pena; la riconoscibilità della particolare tenuità del fatto; ecc…
Poco rileva – contrariamente a quanto osservato dall’Avvocatura dello Stato che sosteneva l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale – che il PM possa facilmente ricavare le informazioni sui precedenti penali dall’esame del casellario, perché trattasi senza dubbio di circostanze potenzialmente pregiudizievoli. Per cui, è alla Pubblica Accusa che grava l’onere di dimostrare la sussistenza di tali circostanze.
Ad analoghe conclusioni si può pervenire per quanto riguarda tutte le altre domande previste dall’art.21 disp.att.c.p.p., quali le condizioni di vita individuale, familiare e sociale, poiché possono assumere rilievo, durante le indagini e il processo, ad esempio nella valutazione delle esigenze cautelari ovvero nella dosimetria della pena detentiva e pecuniaria.
In via di conclusione, la Corte Costituzionale rileva che se, ai fini del diritto sostanziale, sono penalmente rilevanti solo le dichiarazioni false e non il mero silenzio, per quanto riguarda la disciplina processuale non v’è adeguata tutela al diritto a non rispondere; infatti, non è previsto l’esplicito obbligo di avvisare la persona indagata/imputata della facoltà di non rispondere alle domande che non siano strettamente legate alle mere generalità.
Pertanto, ciò che ne deriva è che “la persona interessata non è posta in grado di esercitare consapevolemente il diritto al silenzio, e non è in alcun modo tutelata allorché tale diritto sia stato violato.” Tanto è vero che, nel momento in cui decida di rispondere, eventuali dichiarazioni false possono essere utilizzate nei suoi confronti.
La decisione della Corte Costituzionale
La Consulta così conclude:
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 64 comma 3 c.p.p., nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all’imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all’art.21 disp.att.c.p.p.;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 495 comma 1 c.p., nella parte in cui non esclude la punibilità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate all’art. 21 disp.att.c.p.p. senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all’art. 64 comma 3 c.p.p., abbiano reso false dichiarazioni.
Fonte: https://www.studiocataldi.it/articoli/45929-diritto-al-silenzio-incostituzionali-gli-artt-64-c-3-cpp-e-495-c-1-cp.asp
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